Assieme all’amico Fabio Bortesi, sto lavorando a un libro sulle “bestie cattive” dei nostri boschi – orsi, lupi e serpenti, così come compaiono nelle leggende e nelle tradizioni antiche.
Il recente incidente in Trentino, in cui un ragazzo ha perso la vita in seguito a un’aggressione da parte di un orso, mi ha spinto a inserire nel testo una riflessione riguardo il rapporto fra questi aspetti culturali e le attuali criticità nel rapporto fra la presenza umana e quella dei grandi animali selvatici. È un testo ancora da rielaborare, e va concepito nel contesto più ampio del libro a cui stiamo lavorando; ma ho deciso di pubblicarne qui un’anteprima, sia per esprimere e dettagliare la mia idea al riguardo, sia per l’eventuale confronto con sensibilità diverse dalla mia.
Buona lettura, e grazie se vorrete dirmi che ne pensate.
Francesco
Fatalmente, una notizia di cronaca mi strappa dal mondo senza tempo delle usanze antiche, dei popoli lontani, e mi riporta in un presente dove la convivenza con la natura più selvaggia sembra richiedere compromessi impossibili.
Un giovane è morto mentre correva nei boschi vicini al paese di Caldes, in provincia di Trento. L’autopsia lo ha confermato senza ombra di dubbi, si tratta di un’aggressione da orso.
La notizia è del 5 aprile 2023: proprio mentre finivo di scrivere il capitolo precedente. Non posso fare a meno di fermarmi, per chiedermi cosa può significare la mia ricerca di fronte a un fatto così tragico; che valore abbiano le mie parole di fronte al dolore della famiglia, e degli amici della vittima. Il confronto è amaro ma necessario. Altrimenti il mio discorso diventerebbe una fuga; una fiaba rassicurante, forse affascinante, ma autoconsolatoria, svincolata dalla realtà.
È la prima volta, da tempo immemore, che in Italia l’orso uccide un uomo. In passato non mancarono incidenti analoghi, che però non giunsero mai al tragico epilogo. Il primo, e forse il più celebre, fu quello in cui l’orsa Daniza aggredì un cercatore di funghi, nell’agosto del 2014. Un incontro inatteso, da entrambi i lati. L’animale agì per proteggere la cucciolata, avventandosi contro l’uomo; preso comprensibilmente dal panico, questi cercò di difendersi a calci e pugni. È forse la decisione peggiore che si possa prendere in quei frangenti: contro la dura pelle dell’orso, un pugno umano non ottiene altro che infastidire l’animale. Spesso quella dell’orso è un’intimidazione. La bestia corre verso ciò che percepisce come una minaccia, per poi fermarsi all’ultimo momento, consapevole che questa dimostrazione di potenza basta e anche avanza a spaventare e mettere in fuga l’avversario. Il comportamento corretto, in questi casi, è rannicchiarsi a terra, rimanere fermi mentre proteggendosi la testa, e aspettare che l’orso prenda le distanze. Certo, bisogna saperlo prima, e soprattutto avere il sangue freddo di metterlo in pratica. Ma se si tenta di combattere con l’orso, con pugni o anche bastonate, non si ottiene che passare a un confronto fisico di cui non si può sperare di avere la meglio.
Il cercatore di funghi, tutto sommato, se la cavò a buon mercato: una serie di graffi sul corpo, e un bello spavento. L’incidente nei boschi, però, innescò un conflitto ideologico di portata nazionale.
Da un lato c’era spavento, la sensazione di non essere più liberi di poter passeggiare nei boschi. Per molti, la soluzione più rassicurante parve quella di sopprimere la bestia aggressiva, e non mancarono voci che chiedevano di eliminare del tutto la presenza degli orsi dalle valli del Trentino, giudicate troppo popolate dall’uomo per essere compatibili con una presenza così selvatica.
Nella posizione opposta, c’era il coro degli animalisti che ritenevano l’orsa del tutto innocente. L’animale aveva seguito il suo istinto materno, e semmai la responsabilità era dell’uomo, colpevole di essersi spinto in un bosco che di fatto appartiene all’orso.
Come spesso accade in questi casi, entrambi gli schieramenti erano del tutto convinti delle proprie ragioni, e per nulla disposti ad ascoltare quelle dell’altro. Nella polemica, l’aggressione vera e propria passava in secondo piano: a entrare in conflitto erano due visioni opposte e inconciliabili. Una che idealizza la natura, sognando il ritorno a un mondo selvatico, di cui il più delle volte non si ha mai avuto una vera esperienza. L’altra che teme ciò che non riesce a controllare, che vuole sopprimere ciò che non può sottomettere. Spontaneità o repressione, incertezza o sicurezza.
“Sopprimere Daniza”, “Libertà per Daniza”, “Boschi sicuri”, “Io sto con gli orsi”. Fra tutti questi slogan, la vicenda dell’orsa ebbe un epilogo amaro. La squadra d’emergenza del Corpo Forestale Trentino sparò contro Daniza un anestetico, per catturarla, ma la dose fu fatale. Non mancò chi interpretò l’incidente come una voluta uccisione sotto copertura.
Daniza era uno degli orsi portati dalla Slovenia, dal 1999 in poi, nell’ambito del progetto Life Ursus, che si proponeva di ripopolare l’orso nelle valli del Trentino. Gli orsi locali erano pochi, ormai vecchi, e privi di una femmina in età riproduttiva; l’estinzione locale era dunque inevitabile. L’unica soluzione, se non si voleva che l’orso sparisse dalla regione, era di portare nuovi esemplari, prelevati dalle numerose popolazioni d’oltre confine.
Una ripopolazione è diversa dalla reintroduzione, perché presuppone una continuità: nel caso in questione, l’orso non è mai scomparso dalle alpi trentine. Di fatto, però, la sua riduzione ha fatto sì che le popolazioni locali scordassero le antiche usanze, quel misto di conoscenza, timore e rispetto indispensabili alla convivenza con l’orso.
Nella fase preliminare del progetto Life Ursus venne approfondita l’analisi della compatibilità dell’orso con il territorio e con la presenza umana: non solo in termini di ampiezza territoriale, oppure di danni economici a pascoli o frutteti, ma anche nel riguardo dell’opinione pubblica. Vennero eseguiti diversi sondaggi per garantire che la scelta di ripopolamento fosse accettata e condivisa dagli abitanti. Fu inoltre stilato un piano d’azione che aveva fra gli obiettivi principali quello di garantire un’adeguata comunicazione al pubblico locale, ma anche nei confronti dei turisti, e persino a livello nazionale, per divulgare le accortezze che la presenza dell’orso richiedeva, e per evitare che le criticità nella convivenza innescassero malcontenti che, se lasciati montare, avrebbero rovinato la percezione del progetto, ostacolandone il proseguimento.
Purtroppo, questa attività di informazione e dialogo nel corso degli anni è stata a dir poco trascurata. Le responsabilità sono molteplici, in gran parte di natura politica; gli effetti tragici sono ora sotto gli occhi di tutti. Se il progetto Life Ursus, dal punto di vista strettamente biologico della ripopolazione, è stato uno straordinario successo, si è rivelato invece lacunoso nei confronti del coinvolgimento umano. Gli orsi “li hanno voluti gli animalisti”, si legge oggi, fra i commenti polemici alla notizia dell’uccisione, “Qui non c’è posto per entrambi, o loro o noi”. La parte più populista e forcaiola della politica è pronta a cavalcare questi sentimenti, proponendo immediatamente soppressioni, persino rappresaglie, ventilando abbattimenti di decine di orsi, per “ricondurli nei ranghi”.
Penso agli investimenti pedonali, alle morti per lavoro, o a chi annega dopo un viaggio disperato per mare, alla ricerca di una nuova possibilità. Non esistono morti di serie A o di serie B; ciascuna richiede rispetto e cordoglio, ma anche di interrogarsi su cosa si potrebbe fare per evitare che si ripeta. Perché, allora, morire per una zampata d’orso suscita tanta polemica, mentre altre morti scivolano nel dimenticatoio, senza neanche passare per la cronaca dei giornali?
È perché l’orso è un simbolo. Un simbolo ancora irrisolto, perlopiù. È l’incarnazione di quelle tendenze opposte, che tuttavia ciascuno di noi ha in sé. L’essere umano ha la natura di un paradosso inconciliabile, e l’orso ci pone di fronte a questa domanda irrisolvibile che siamo. Siamo autocontrollo, ma anche passione. Civiltà e frenesia. Ci annoiamo al sicuro delle nostre case, ma ci terrorizza il calare delle tenebre, se ci sorprende nel bosco. Un territorio senza la presenza selvatica ci sembra spento, eppure con essa non sappiamo coabitare.
Non siamo né di qua né di là, proprio come l’orso, nostro fratello selvatico, che però ogni tanto si alza su due piedi, e si guarda attorno con curiosità e intelligenza. Esseri a ridosso del confine, noi e lui; l’umano al di qua della linea del bosco, lui oltre. Ma siamo vicini, e proprio per questo ci sentiamo attratti nei suoi confronti, e al tempo stesso lo odiamo. Chissà lui cosa pensa di noi.
L’orso è un simbolo ancora pulsante, una tensione capace di manifestarsi nella nostra realtà presente, a volte in maniera grave – tanto nei fatti in sé, che nelle loro implicazioni psicologiche e culturali. Ecco perché mi sento di continuare nella mia ricerca, e anzi, dopo questa riflessione mi pare ancora più utile e necessario. Nelle leggende e nelle tradizioni più arcaiche si può trovare la chiave per accostarsi in maniera più proficua a questo conflitto che è tanto interiore quanto esteriore, antico eppure del tutto attuale.
Torno a studiare, dunque. L’orso di carta, l’orso dei ricordi, non deve sostituirsi alla comprensione dell’animale vero; ma può aiutarci a capirlo, a tentare una riposta alla domanda impossibile che esso ci pone.
Sfoglio un articolo di Vesa Matteo Piludu, “I rituali della caccia all’orso in Finlandia e Carelia”: c’è un passo che mi aveva colpito, ma a cui finora non ero riuscito a dare una collocazione, nella mia personale costellazione di significati riguardanti l’orso. “Essendo sacri, gli orsi e la foresta erano considerati anche puri, puliti, cioè innocenti. La gente credeva che un orso normale fosse sempre innocente, incapace di far male alle persone. Quello che attaccava o uccideva i bovini o la gente doveva essere stato stregato. Ma l’orso in sé rimaneva innocente; il vero responsabile, il malefico che agiva nell’ombra, era un altro essere umano: un esecrabile e invidioso stregone, probabilmente nascosto nel villaggio più vicino.”
Un orso stregato può venir tolto di mezzo senza tante cerimonie: la caccia non è rituale, ma semplice abbattimento, a cui non segue nessuna festa. Mi stupisce questa divisione. Due immagini diverse per quello che è lo stesso animale: sacro re dei boschi, oppure veicolo di un maleficio. A pensarci bene, è la stessa schizofrenia con cui la nostra cultura concepisce l’orso odierno. Una presenza desiderabile finchè se ne sta buono, finchè non entra in conflitto con l’essere umano. E ancor oggi, permane lo stesso senso di responsabilità: quando l’orso diventa “cattivo”, si avverte che in fin dei conti la colpa è umana. Non è lo schema di uno stregone cattivo, ma il contagio di un maleficio che ci portiamo dietro, collettivamente, e che si riversa anche sulla natura, quasi come una corruzione.
L’attività antropica che invade sempre di più il territorio, costringendo gli animali selvatici a uscire dal loro habitat naturale. L’abbondanza e lo spreco della nostra società, che attira anche gli animali, viziandoli con una fonte di cibo facile. L’orso diventa confidente, smette di aver paura della presenza umana; si moltiplicano i danni alle coltivazioni, gli attacchi agli allevamenti, anche agli animali domestici. Dal lato umano crescono la paura e il malcontento, e con essi la possibilità di conflitto. Esche avvelenate, bracconaggio. Minaccia di tornare la follia che aveva portato allo sterminio dell’orso, nei secoli precedenti; la stessa a cui si era tentato di rimediare con il progetto di ripopolamento.
“Qui non c’è posto per tutti questi orsi”, si sente dire, e in parte è vero. Ma perché a doversi ritirare è sempre il lato selvatico? Proporre un ritiro della presenza umana è quasi un tabù, culturale e politico. Ridurre le coltivazioni, le monoculture dei frutteti; dismettere certe strutture turistiche, inibire per determinate zone l’accesso agli escursionisti, almeno nei periodi di maggior attività selvatica. Ma chi vorrebbe farsi carico di simili rinunce? E quale forza politica sarebbe disposta a proporle, giocandosi il favore degli elettori, e soprattutto delle realtà economiche che influenzano il territorio? D’altronde questi consensi sono soltanto umani. Né gli orsi né gli altri animali hanno diritto di voto; e tuttavia subiscono lo stesso le decisioni politiche che interessano anche la loro vita.
In Slovenia la situazione è differente. La presenza umana è più rada, i boschi si perdono a vista d’occhio, senza l’ombra di un villaggio o di una strada. Gli orsi sono molto più numerosi rispetto a quelli delle alpi italiane, ma hanno anche più spazio.
Eppure, gli incidenti avvengono anche qui, e anche gli attacchi all’uomo.
La Slovenia non è certo un paradiso dove gli animali vivono felici, senza conflitti con gli umani. Lì lo Stato dispone l’abbattimento di un numero annuale di orsi, per tenere sotto controllo il numero complessivo della popolazione, e ridurre i danni che possono causare. Ciò non manca di suscitare aspre polemiche con le associazioni animaliste locali.
C’è però una differenza fondamentale con la situazione del Trentino: in Slovenia la presenza dell’orso è stata costante. C’è sempre stato, non è mai sparito per poi tornare. La popolazione non ha scordato cosa significa vivere con un massiccio animale selvatico come compatriota. La consuetudine e le tradizioni aiutano a prevenire gli incidenti, ma anche ad affrontarli quando succedono: è più facile accettarli, quando si ha una cornice di saperi a cui fare riferimento, in cui poter collocare l’inatteso. Nel rapporto con la natura, la cultura è fondamentale.