SOTTO LA SUPERFICIE

Iniziò gradualmente. All’inizio non ci feci neppure caso: non avevo ancora imparato la differenza fra realtà e verità.

Ero sul lavoro quando notai per la prima volta che c’era qualcosa di strano. Il mio collega era seduto tranquillamente alla sua scrivania, e stava scrivendo degli appunti su un quaderno. Mi accorsi però che invece della penna egli stringeva in mano uno stiletto, una sorta di pugnale appuntito e tagliente. Più che scrivere graffiava la carta, incidendo sul foglio dolorose ferite, e da quelle parole intagliate colava un rivolo di inchiostro rosso come il sangue.

Mi chiesi che genere di pensieri stesse mettendo per iscritto, così crudelmente noiosi da far piangere il foglio. Ma poi chiusi gli occhi, e quando tornai a riaprirli vidi nuovamente un normale impiegato, intento a scrivere banalità con una banalissima penna, su un foglio qualsiasi.

Non ci pensai troppo su – mi convinsi che si trattava semplicemente di un sogno ad occhi aperti, forse dovuto alla stanchezza.

Una settimana dopo mi successe di nuovo. Incrociai sulle scale di casa l’inquilino del terzo piano. Lo salutai normalmente, come ogni giorno, ma lui mi rispose con una voce cavernosa e profonda, un ringhio profondo che mi riecheggiò fin dentro le ossa. Alzai lo sguardo, e vidi con sgomento il suo vero volto. La pelle era di un color marrone squillante, quasi arancione, e dal naso partivano strie di squame argentate, che mettevano in risalto gli zigomi rendendo il suo volto spigoloso come quello d’un rettile.

Mi spaventai, ma per fortuna non gridai; ci avrei rimediato una bella figuraccia! Lo seguii con la coda dell’occhio mentre scendeva le scale, e constatai con un certo sollievo che le sue fattezze erano tornate umane.

Gli incidenti di questo genere cominciarono a farsi sempre più frequenti.

Quando versavo il vino nel bicchiere, vedevo il liquido prender fuoco, in lunghe e sottili fiamme verdastre.

Più volte mi capitò di osservare come le banconote tingessero le dita di chi le maneggiava, lasciando un alone di colore pallido e smorto che non andava via nemmeno con il sapone.

Un giorno, mentre ero in vacanza in montagna, mi resi conto che il laghetto alpino che stavo ammirando era in verità un rettile, un’enorme lucertola addormentata, avvolta a cerchio nella sua stessa coda. Il suo corpo era di cristallo, un meraviglioso azzurro traslucido e luminoso.

Pian piano imparai a riconoscere questi momenti, e a comprendere quando i miei occhi non mi raccontavano più la realtà.

Mi resi però conto che anche queste visioni non erano casuali, nè tantomeno insensate. Anzi, direi che è proprio l’opposto!

Se la realtà materiale è una domanda, quelle immagini sono la risposta. Parlano un linguaggio difficile, che va oltre la mera allegoria. Non sempre le comprendo, ma in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile capirle, ho potuto constatare come esse offrano una prospettiva sulle corde profonde dell’esistenza, un’essenza che non si è mai dimostrata errata o fuorviante.

Per semplicità, ho scelto di chiamare “realtà” la normale apparenza delle cose, e “verità” il senso che in essa si cela.

La verità non esclude la realtà; realtà e verità si completano a vicenda, sono necessarie l’una all’altra. La verità spiega la realtà e la rende viva, nè è l’aspetto più profondo, come l’anima rispetto al corpo.

Questa mia diplopia spirituale mi ha permesso di ricredermi su tanti fatti della vita che davo per scontati.

Ho cambiato ad esempio opinione su molte persone che ritenevo amiche. Ho colto in fallo un collega che si complimenta sempre con me per la qualità del mio lavoro; ma io ho visto che mentre lo fa, dietro i denti la sua lingua serpeggia come una fiamma viva. Un giorno poi incontrai un amico di infanzia, che non vedevo più da anni. Si fece avanti sorridendo, ma quando volle stringermi la mano notai che il suo intero braccio era simile alla chela di un granchio. Capii allora che l’incontro non era affatto casuale; probabilmente lo aveva organizzato appositamente per scucirmi dei favori.

Mi capita poi spesso di incontrare persone che portano addosso la verità delle loro azioni: si mostra come una remora dalle sembianze mostruoso, una bestia demoniaca che li tiene prigionieri. Il suo muso è di volta in volta diverso, a seconda della natura della loro pena: colpa o bramosia, mancanza o eccesso. Credo che sia questo che gli antichi chiamavano “peccato”! Ma non si tratta di una possessione demoniaca: la bestia è un tutt’uno con il loro corpo, non c’è un punto in cui termina l’uomo ed inizia il demone. In fin dei conti, si potrebbe dire che sono posseduti da loro stessi.

Anche nella banalità di ogni giorno possono schiudersi significati nascosti che non avrei mai sospettato.

Rimasi profondamente impressionato la prima volta che vidi la verità di una strada. Nella realtà era una comune via trafficata del centro città, ma io vidi: era un fiume di un liquido nero e denso come il miele, opaco e maleodorante. Su di esso galleggiavano delle gigantesche uova trasparenti e gelatinose; al loro interno dormivano degli uomini, come sospesi nel liquido amniotico.

Quel giorno compresi che non sono i piloti a decidere la destinazione dei loro automezzi, ma che è la corrente della strada a trascinarli a suo piacimento.

Certi, con cui mi son confidato, mi dissero che il mio era un dono. No, non è così: i doni sono gratuiti, mentre io pago un prezzo che a volte si fa insostenibile. Ad esempio mi capita spesso di vedere la vera forma degli alberi: il tronco è un groviglio di arterie e nervature, e le foglie sono tante piccole anime, simili a minuscoli bambini luminosi e diafani. Cantano assieme, una commovente poesia senza parole. Ma non vi parlerò dell’agghiacciante spettacolo dell’autunno, e del terrificante grido con cui cadono le foglie. La gente mi deride, perchè quando cammino cerco di non calpestare le foglie secche. Beati loro, che non vedono la verità!